E’ appena stato pubblicato dalla casa editrice Giappichelli Editore di Torino il libro Che contratti! Progettare, scrivere, disegnare contratti semplici e chiari, che ho scritto a quattro mani con Lorenzo Carpané, linguista, docente universitario e consulente di scrittura professionale e giuridica.

Un libro per progettare e scrivere contratti leggibili, comprensibili e utilizzabili.

E’ rivolto a coloro che scrivono, leggono, gestiscono contratti. Tutti coloro che, nelle aziende e negli studi, per lavoro o anche per interesse, vogliono contratti più leggibili, più efficaci e capaci di esprimere con precisione e la massima semplicità ciò per cui si scrivono: definire le regole di un accordo e di una relazione.

Semplicità e chiarezza dei contratti sono state le parole chiave che ci hanno guidato in questo progetto, che abbiamo voluto anche riportare nel sottotitolo a caratterizzare il libro.

Un lavoro difficile, perché, come disse Bruno Munari, «complicare è facile, semplificare è difficile. Per complicare basta aggiungere tutto quello che si vuole: colori, forme, azioni, decorazioni, personaggi, ambienti pieni di cose. Tutti sono capaci di complicare. Pochi sono capaci di semplificare. Per semplificare bisogna togliere, e per togliere bisogna sapere che cosa togliere […] La semplificazione è il segno dell’intelligenza».

Senza alcuna pretesa di esaustività, abbiamo raccolto nuove possibili strutture di contratti, alcune riflessioni che occorre fare in relazione ai nuovi contesti in cui quotidianamente si concludono i contratti, nuove forme linguistiche quali il Plain contract language, alcuni elementi visuali che possono venirci in aiuto (dalle check-lists alle tabelle, dalle linee del tempo alle evidenziazioni, e così via), nuovi metodi come il design thinking, il legal project management, gli strumenti di verifica e alcuni strumenti tecnologici che abbiamo a disposizione, i nuovi modelli di contratto.

Il libro vuole solo essere una cassetta degli attrezzi per chi vuole provare a progettare in modo nuovo i contratti nella complessità dei nostri giorni, una guida per suscitare curiosità e idee e per immaginare come possono essere e come ciascuno di noi vuole che siano i contratti che regoleranno le nostre relazioni nel prossimo futuro.

Questa sarà anche una scelta etica e politica, di democrazia, di identità professionale e responsabilità d’impresa.

Il proprietario di un appartamento risponde dei danni subiti dal vicino a causa dei lavori svolti nel suo immobile. Al proprietario committente dei lavori non è sufficiente, per sottrarsi dalla responsabilità verso il vicino, eccepire di avere dato i lavori in appalto ad un’impresa.

Così la Corte di Cassazione, con un’ordinanza del 12 luglio 2022, su un caso frequente, ricorda alcuni principi fondamentali sulle responsabilità che derivano dal diritto di proprietà su un immobile nel caso in cui si affidino dei lavori in appalto.

Nel caso deciso dalla Corte di Cassazione, la vicenda riguarda un condomino che ha agito in giudizio contro il vicino del piano superiore, dal cui appartamento erano derivati danni al suo, a causa della rottura di una tubazione che aveva danneggiato il soffitto e l’impianto elettrico.

Il vicino del piano superiore ha respinto la richiesta di risarcimento, chiedendo che la responsabilità venisse interamente attribuita all’impresa, con cui aveva sottoscritto un contratto di appalto di restauro e che stava svolgendo lavori nel suo appartamento.

I giudici di primo grado e di appello hanno respinto la richiesta di risarcimento, ma la Corte di Cassazione è stato di diverso parere.

Ha, infatti, ricordato che il proprietario di un immobile resta responsabile nei confronti dei terzi dei danni causati dal suo immobile, anche se i danni derivano dall’attività di terze persone (come in questo caso di contratto di appalto a un’impresa terza). Il proprietario-committente di lavori edili deve sempre essere ritenuto “custode” del bene così come previsto dall’art.2051 codice civile. Grava, quindi, sempre su di lui l’obbligo di vigilanza affinchè il bene non provochi danni a terzi e, nel caso in cui si verifichino danni, l’obbligo di risarcirli.

Nel caso di contratto di appalto, il proprietario può liberarsi dalla responsabilità per i danni causati, solo se riesce a provare di avere ceduto all’impresa appaltatrice il totale potere di fatto sul bene, così da eliminare temporaneamente ogni suo onere di vigilanza su di esso.

Se il proprietario non riesce a dare questa prova, secondo la Corte di Cassazione deve essere ritenuto responsabile verso il vicino danneggiato per i danni causati dai lavori nel suo appartamento.

Potrà, tuttavia, poi eventualmente agire in regresso verso l’impresa appaltatrice per farsi a sua volta risarcire dei danni che avrà dovuto versare al vicino danneggiato.

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n.16756 del 24 maggio 2022 ha riconosciuto la responsabilità esclusiva del funzionario pubblico e ha, invece, escluso la responsabilità dell’ente pubblico, in particolare un comune, nel caso in cui un privato abbia agito per ottenere il pagamento di lavori di somma urgenza svolti senza un regolare contratto e senza che il funzionario abbia nemmeno poi provveduto a regolarizzare l’ordine, come avrebbe dovuto fare a pena di decadenza entro la fine dell’esercizio.

La Corte ha ritenuto che in questo caso, poiché il rapporto contrattuale non era stato in seguito regolarizzato nelle forme di cui all’art.23 del D.L. n. 66 del 1989 (oggi art.191 d.lgs.267 del 2000), il rapporto contrattuale si era costituito direttamente con il funzionario che aveva agito per conto del comune, ma non con il comune.

Il privato, quindi, può agire direttamente contro il funzionario con una vera e propria azione contrattuale, ma non nei confronti del comune.

Secondo questa ordinanza, tra l’altro, il privato non può agire nei confronti dell’ente pubblico nemmeno con l’azione di indebito arricchimento (art. 2041 codice civile).

E’ bene ricordare che questo orientamento della Corte di Cassazione non è univoco e si affianca ad altre pronunce in cui la Corte è stata, anche di recente, di diverso parere. Per un secondo orientamento, infatti, in mancanza di un efficace e valido contratto, il privato potrebbe invece agire contro l’ente pubblico con l’azione di indebito arricchimento ai sensi dell’art. 2041 codice civile (Corte Cass., n.26576 del 30.9.2021). Vi è poi un terzo orientamento, in forza del quale il privato può agire verso l’ente pubblico con l’azione di indebito arricchimento di cui all’art.2041 codice civile solamente in via surrogatoria (ai sensi dell’art.2900 codice civile), ossia agendo in sostituzione ed esercitando i diritti del funzionario verso l’ente (Corte Cass. n.10432 del 31.3.2022).

Con l’ordinanza del 7 febbraio 2022 n. 3695, la Corte di Cassazione si è occupata di un caso di acquisto di un bene (in particolare si trattava di un’autovettura) che si è rivelato non idoneo all’uso a cui era destinato e delle tutele previste per l’acquirente, nel caso sia un “consumatore”.

IL CONSUMATORE.

Si ricorda, innanzitutto, che  “consumatore” è definito dal Codice del consumo la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta.

I PRINCIPI AFFERMATI DALLA CORTE DI CASSAZIONE.

La Corte ha affermato alcuni principi che è bene conoscere.

La preferenza al Codice del Consumo.

Ha, in primo luogo, ricordato che, nel nostro ordinamento, il contratto di compravendita è regolato sia dal codice civile che dal c.d. Codice del consumo (d.lgs.206/2005).

Ha aggiunto che il nostro legislatore ha dato  preferenza della disciplina del Codice di consumo rispetto al codice civile, ritenuto sussidiario.

I termini.

La Corte ha, poi, ricordato i punti fondamentali della disciplina del Codice del consumo rilevanti per la vicenda:

·       il venditore è responsabile nei confronti del compratore per qualsiasi vizio del bene venduto che si manifesti entro i due anni dalla consegna;

·       il consumatore  deve denunciare (cioè comunicare, far conoscere) il vizio al venditore entro due mesi dalla scoperta del vizio. La denuncia “può essere fatta con qualunque mezzo che in concreto si riveli idoneo a portare a conoscenza del venditore”;

·       si presume che i vizi manifestati entro sei mesi dalla consegna del bene fossero presenti già al momento della consegna. In questo caso, il compratore dovrà solo affermare l’esistenza del vizio, mentre il venditore avrà il compito di dimostrare l’idoneità del bene al momento della consegna, se vuole sottrarsi alla responsabilità.

Le tutele a disposizione del consumatore.

La Corte ha, infine, riportato le tutele fondamentali a disposizione del consumatore-compratore nel caso di vizi del bene acquistato, secondo una gerarchia che il consumatore, nel rivolgere le sue domande al venditore, deve rispettare:

1.    il consumatore può richiedere, in un primo momento, a sua scelta, la sostituzione o la riparazione del bene (rimedi primari). La sostituzione o riparazione del bene devono avvenire senza spese per il consumatore, entro un tempo ragionevole e non devono provocargli inconvenienti;

2.    in un secondo momento, se la riparazione o sostituzione sono impossibili o troppo onerose, se il tempo congruo per la riparazione e sostituzione del bene è scaduto senza che il venditore abbia provveduto, se la riparazione o sostituzione gli hanno recato inconvenienti notevoli, il compratore può chiedere, sempre a sua scelta, o una congrua riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto, pur in presenza di un vizio lieve (rimedi secondari).

 

– Questo contributo è stato realizzato con la collaborazione di Francesca C., studentessa in alternanza scuola-lavoro nel mese di marzo 2022 –

 

 

 

La responsabilità civile per esercizio di attività pericolose (art. 2050 cod.civ.) è stata introdotta in Italia per la prima volta nel codice civile del 1942 e, insieme ad altre ipotesi particolari di responsabilità, ha una disciplina speciale rispetto alla responsabilità civile generale di cui all’art.2043 codice civile.

La specialità – ed il motivo per cui è importante conoscerne la disciplina – riguarda soprattutto l’onere della prova posto a carico dell’esercente l’attività: nel caso di esercizio di attività pericolose la responsabilità dell’esercente l’attività, infatti, si presume salvo che non sia lui a dare la prova liberatoria da una sua responsabilità, mentre nella responsabilità civile generale il danneggiato deve provare anche l’esistenza dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa del danneggiante.

La responsabilità per esercizio di attività pericolose ha trovato, in passato, applicazione nella giurisprudenza in numerosi settori, dall’attività edilizia all’attività di produzione e distribuzione di gas in bombole, dalle attività sportive all’attività medica e farmaceutica, dalla navigazione aerea e marittima alla gestione di reti elettriche. 

Vediamone alcune caratteristiche.

La disciplina è contenuta  nell’art.2050 codice civile, che prevede: “Chiunque cagiona danno ad altri nello svolgimento di un’attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento, se non prova di avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno”.

COSA SI INTENDE PER “ATTIVITA’ PERICOLOSA”?

Con la parola attività pericolosa, l’art.2050 c.c. fa riferimento:

– alle attività pericolose tipiche (ad esempio quelle elencate nel Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza, nel suo regolamento, nelle leggi speciali, …)

– ad attività pericolose atipiche, ossia attività da considerarsi tali in base ad un’indagine svolta caso per caso, potenzialmente dannose per l’alta probabilità di causare sinistri per la loro natura o per la natura dei mezzi usati. Per valutare se un’attività rientra in questa categoria, si può fare riferimento a due criteri: la quantità di danni usualmente provocati e la gravità e entità dei danni minacciati.

La Corte di Cassazione ha, in passato, precisato che “Costituiscono attività pericolose ai sensi dell’’art.2050 c.c. non solo le attività che tali sono qualificate dalla legge di pubblica sicurezza o da altre leggi speciali, ma anche le diverse attività che comportino la rilevante probabilità del verificarsi del danno, per la loro stessa natura e per le caratteristiche dei mezzi usati, non solo nel caso di danno che sia conseguenza di un’azione, ma anche nell’ipotesi di danno derivato da omissione di cautele che in concreto sarebbe stato necessario adottare in relazione alla natura dell’attività esercitata alla stregua delle norme di comune diligenza e prudenza” (Cass. 10.2.2003, n.1954).

 

IL DANNO DEVE ESSERE COLLEGATO ALL’ATTIVITÀ’ PERICOLOSA CON UN NESSO DI CAUSA

Affinchè sorga questa responsabilità, il danno verificatosi deve essere collegato all’attività pericolosa da un nesso di causa

La prova del nesso di causa tra il danno e l’attività deve essere data dal danneggiato

Il nesso di causa viene interrotto – e, dunque, il danno non è riferibile all’attività pericolosa – solo se il danno viene causato non direttamente dall’attività pericolosa, ma: 

– da un fatto dello stesso danneggiato; 

– da un fatto di un terzo; 

– o da un altro fatto estraneo all’esercente l’attività.

La Corte di Cassazione ha, ad esempio, di recente escluso l’esistenza del nesso di causa – e, dunque, la responsabilità dell’esercente l’attività – tra la condotta dei produttori e distributori di sigarette ed il danno derivato alla persona in conseguenza del fumo (c.d. danno da fumo attivo).  In particolare, ha ritenuto che lacircostanza che la vittima, usando l’ordinaria diligenza, avrebbe potuto evitare la condizione di dipendenza irreversibile da fumo, integrava un caso di fatto proprio del danneggiato, che poteva imputare il danno subito solo a sè (Cass. 21.1.2020, n. 1165).

Ancora più di recente, la Corte di Cassazione si è pronunciata in un caso di consegna di una cosa pericolosa dal produttore ad un’altra persona ed ha ritenuto  che, dal momento della consegna in poi,  la presunzione di responsabilità si trasferisca in generale a quest’ultima: dal momento in cui il produttore di una cosa in sé pericolosa, la consegni ad altra persona che la utilizzi autonomamente in un’attività da cui derivi un danno a terzi, il consegnatario assume un distinto potere di disposizione e si trasferiscono a suo carico i doveri di custodia, di sorveglianza e di prudenza; pertanto, la presunzione di responsabilità di cui all’art. 2050 c.c. non grava più sul produttore, di cui è cessata ogni attività, ma sul consegnatario, al quale, in caso di sinistro, spetta l’onere di dimostrare che l’evento dannoso si è verificato per caso fortuito ovvero per un vizio intrinseco della cosa, addebitabile unicamente al costruttore (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso la responsabilità del venditore del gas utilizzato dall’acquirente per il collaudo di una caldaia, realizzata in esecuzione di un appalto affidatogli da un terzo, la quale era esplosa provocando la morte del committente)”  (Cass. Ord.09.2021 n.26236).

LA PROVA LIBERATORIA.

            L’art.2050 cod.civ. prevede che è esclusa la responsabilità dell’esercente l’attività se prova di “avere adottato tutte le misure idonee a evitare il danno”.

            La prova è a carico dell’esercente l’attività e non consiste solo nella prova negativa di non avere commesso violazioni di norme di legge o di comune prudenza, ma nella prova positiva di avere impiegato ogni cura o misura per impedire il danno. 

La scelta delle misure più adatte da adottare è rimessa alla discrezionalità dell’esercente l’attività(da esercitare facendo uso della normale prudenza e tenendo conto dello sviluppo della tecnica e delle condizioni pratiche in cui l’attività si svolge) sempre che non sia la legge stessa ad imporre l’obbligo di adottare talune misure. In quest’ultimo caso, se l’esercente l’attività ha adottato misure diverse da quelle prescritte da norme legislative o regolamentari, non  c’è possibilità di valutare l’idoneità di quelle, diverse, eventualmente adottate (Cass. 24.11.2003, n. 17851: principio affermato in riferimento a fattispecie di lavori stradali eseguiti su di un marciapiedi senza l’adozione di cartelli di pericolo e di appositi ripari, come stabilita dall’art. 8 lett b) D.R.P. n. 393 del 1959, vigente all’epoca dei fatti).

QUALCHE CASO.

La responsabilità per l’esercizio di attività pericolosa ha trovato applicazione, nella giurisprudenza, in vari settori, quali:

·      attività edilizia“l’attività edilizia, massimamente quando comporti rilevanti opere di trasformazione o di rivolgimento o di spostamento di masse terrose e scavi profondi ed interessanti vaste aree, non può non essere considerata attività pericolosa ai fini indicati da detta norma.” (Cass. 10.2.2003, n.1954)

·      gas, bombole e carburante: “L’ industria della produzione e della distribuzione di gas in bombole costituisce attività pericolosa. L’ ente o la persona che provvede alla raccolta o produzione di gas ed alla distribuzione delle bombole ripiene agli utenti è, nell’ esercizio della sua attività, soggetto alla responsabilità ex art. 2050 c.c., in riferimento a tutti gli eventi dannosi che abbiano a verificarsi in pendenza o in occasione dell’ uso del gas e che possano comunque collegarsi alle operazioni compiute dall’ ente o dalla persona predetti. Il pericolo delle esplosioni perdura anche dopo le operazioni di riempimento delle bombole e cioè quando queste, che rimangono sempre di proprietà dell’ imprenditore, vengono messe in commercio, distribuite e consegnate alla clientela per essere usate.”  (Cass. n.1595/1969)

·      attività sportive: ad esempio, “L’organizzazione di una gara motociclistica su circuito aperto al traffico (anche se di regolarità) è un’attività alla quale è applicabile l’art.2050 c.c.” (Cass. 24.1.2000, n.749); o ancora la Corte di Cassazione ha ritenuto esserci “la responsabilità ex art. 2050 c. c., dell’ente gestore di un parco di divertimenti, per le lesioni subite da due persone che avevano preso posto su un <bob>, fuoriuscito dalla pista di discesa, avendo ritenuto una intrinseca pericolosità sia in relazione alla conformazione ed alle curve del tracciato, sia alla velocità del mezzo ed alla sua struttura” (Cass. 27.7.1990, n.7571)

·      attività farmaceutica: “la produzione e l’immissione in commercio di farmaci, contenenti gammaglobuline umane e destinati all’inoculazione nell’organismo umano, costituisce attività dotata di potenziale nocività intrinseca, stante il rischio di contagio del virus della epatite di tipo B, non espressamente previsto dalla normativa riguardante gli emoderivati, ma tuttavia compreso nell’ampia prevenzione stabilita da dette disposizioni” (Cass. 20.7.1993, n.8069)

·      attività diretta alla produzione ed alla somministrazione dell’energia elettrica ad alta (Cass. n.537/1982), media e bassa tensione (Cass.389/1997). Di recente, anche Tribunale di Teramo, sent. 13.1.2022, n.21 in un caso di danni a terzi causati da Enel Distribuzione nello svolgimento dell’attività di gestione di una linea elettrica

·      ma anche in relazione a numerose altre attività: dall’attività di esercizio di una gru all’attività mineraria, dalla produzione di rifiuti tossici al carico e scarico di una nave cisterna, …

 

L’elenco non è esaustivo, sono solo alcuni esempi per dare qualche spunto di riflessione, la casistica è ampia e la responsabilità a carico dell’esercente l’attività può essere molto gravosa.

– Questo contributo è pubblicato anche nella sezione riservata contributi dei partner di Partner24ORE, il network di professionisti e aziende specializzate del Gruppo Sole24ORE –

 

Il soggetto che ha ricoperto per un certo periodo il ruolo di legale rappresentante di un’associazione non riconosciuta è responsabile solidalmente con l’associazione dei debiti tributari dell’ente per tutto il periodo in cui ha ricoperto la carica. La responsabilità dell’ente per i debiti tributari sorge per legge al verificarsi del presupposto e si estende al legale rappresentante sia per i tributi non versati sia per le relative sanzioni e interessi.

LA VICENDA.

La Corte si è pronunciata all’esito di un giudizio di opposizione proposto da una signora, legale rappresentante di un’associazione non riconosciuta, verso una cartella di pagamento di tributi non versati per quasi 350.000,00 euro. La cartella era stata notificata all’associazione quale obbligata principale ed a lei quale rappresentante legale dell’associazione, in qualità, dunque, di coobbligata solidale.

La rappresentante legale era stata individuata, in base alla carica formalmente rivestita per l’associazione, quale corresponsabile in forza degli articoli 36 e 38 codice civile. Quest’ultimo articolo, in particolare, disciplina la responsabilità per le obbligazioni assunte dalle associazioni non riconosciute e prevede che: “Per le obbligazioni assunte dalle persone che rappresentano l’associazione i terzi possono fare valere i loro diritti sul fondo comune. Delle obbligazioni stesse rispondono anche personalmente e solidalmente le persone che hanno agito in nome e per conto dell’associazione”.

La contribuente si era opposta alla cartella di pagamento, eccependo che l’Ufficio impositore non aveva dimostrato la sua effettiva attività di gestione dell’associazione e che, dunque, non poteva essere ritenuta responsabile personalmente dei debiti tributari.

La Corte di Cassazione, tuttavia, ha respinto la difesa della signora e confermato la correttezza della pretesa tributaria nei suoi confronti. 

I PRECEDENTI RICHIAMATI.

 La Corte ha, innanzitutto, richiamato un suo precedente (sent. 22861 del 26.9.2018), a cui si è in quest’ultima pronuncia conformata, in cui aveva ritenuto il legale rappresentante di un’associazione sportiva dilettantistica responsabile solidalmente con l’associazione per omesso versamento delle imposte. 

In quel caso, la Corte aveva affermato che la responsabilità personale e solidale del legale rappresentante per i debiti tributari si doveva ricollegare non tanto all’effettiva gestione dell’ente da parte sua, ma al corretto adempimento degli obblighi tributari su di lui incombenti. In concreto, si doveva, dunque, accertare se il rappresentante, pur non essendosi ingerito nell’attività negoziale dell’associazione, abbia adempiuto agli obblighi tributari. Solo nel caso di corretto adempimento degli obblighi tributari, avrebbe potuto andare esente da corresponsabilità.

 I PRINCIPI AFFERMATI.

 La Corte, nel caso affrontato nell’ordinanza del 1 febbraio, ha ribadito il suo orientamento e ha ritenuto che:

–    deve essere chiamato a rispondere dei debiti tributari dell’associazione non riconosciuta “solidalmente, tanto per le sanzioni pecuniarie quanto per i tributi non corrisposti, il soggetto che, in forza del ruolo (di diritto) formalmente rivestito nell’ente, abbia diretto la complessiva gestione nel periodo di imposta considerato;

“il rappresentante legale di un’associazione non riconosciuta non può, infatti, andare esente, a fini fiscali, da responsabilità solidale con l’ente semplicemente affermando la sua mancata ingerenza nella concreta gestione del medesimo. Egli, infatti, è, per legge (la rappresentanza fiscale dell’ente spetta, per definizione, al legale rappresentante ex art.36 codice civile), il soggetto passivo di imposta, cosicchè, quand’anche non si sia ingerito nell’attività dell’ente, egli comunque resta condebitore verso il fisco, a meno che non dimostri di aver assolto agli adempimenti tributari”.

 

Pertanto, secondo la Corte di Cassazione, il rappresentante legale dell’Associazione non riconosciuta, che non aveva provveduto a versare i tributi dovuti e non aveva dato prova del corretto adempimento di tutti gli obblighi fiscali posti a carico dell’associazione, va ritenuto responsabile solidalmente con l’ente dell’ inadempimento ed è tenuto al versamento.